PRESENTAZIONE CRITICA ALL’ARTISTA MANLIO A CURA DELL’ARCHIVIO MONOGRAFICO DELL’ARTE ITALIANA
Lo scultore Manlio è alla ricerca di un nuovo pensiero, quando lavora un materiale come il marmo, la pietra, il legno, coglie l’energia, l’essenza e la ricchezza, i materiali rappresentano una vita vissuta in silenzio, l’artista lavorandoli sprigiona la vitalità che per anni è rimasta al loro interno.
Con la lavorazione Manlio ottieni rilievi, scavi, tagli particolari che donano alla scultura la percezione di un corpo in movimento. Il design moderno conferisce al manufatto un tocco unico di eleganza.
Manlio elabora la poetica di un’astrazione geometrica perfetta, recepita come combinazione tra individualità e realtà, le sculture sono rivolte verso l’alto come se cercassero uno spazio cosmico, la calibratura dei volumi tra pieni e vuoti stabilisce una costruzione tra spazio e tempo. Le rotondità realizzate, le sinuosità del materiale che si piega e si contorce, rendono il lavoro dell’artista suggestivo e ricco di sollecitazioni. Le opere diventano espressione di tematiche diverse, dalla ricerca sul tempo che passa e non si ferma, dalla ricerca di emozioni, dalla costruzione di eventi singolari che riguardano l’essere umano e l’ambiente, alla scelta di tematiche sociali, religiose, allegoriche e spirituali.
Incantevoli forme astratte ed accostate ad una pura forma geometrica diventano rappresentazione di una simbologia caratteristica, la variabilità del colore, dei materiali scelti, esalta l’unicità plastica e i volumi. La realtà per lo scultore Manlio diventa espressione essenziale, eliminare il superfluo per far affiorare i pochi elementi che ne determinano la bellezza e la vitalità.
Un’indagine evidente sulla frontalità e sulla verticalità, una ricerca innovativa e rivoluzionaria che riduce l’opera scultorea ad un unico punto di vista. Le strutture variano nello spessore, blocchi di pietra e di legno diventano rivelazione monumentale di un gioco più articolato e profondo sull’astrattismo e sulla figurazione. Il linguaggio di Manlio si sviluppa seguendo l’intima relazione dell’armonia, in ogni sua scultura permane l’immagine di una bellezza che cura la coscienza dal dolore. Lo scultore contempla la dimensione dello spazio-tempo concentrandosi sulla relazione e sull’infinito dinamismo determinante nella sua arte.
Forme, segni lisci e ruvidi, imprimono l’autenticità di chi racconta la visione di un’immagine e la trasformazione di un’emozione, nella scultura di Manlio defluiscono, in un’astrazione talvolta surreale e simbolica, culture diverse, l’antico ed il moderno.
Archivio Monografico dell’Arte Italiana – Dicembre 2022
PRESENTAZIONE CRITICA ALL’ARTISTA MANLIO A CURA DI ANGELO FLORAMO
Un barbaro ha mani che non raccolgono e non offrono nulla, ma afferrano e frantumano. Non ha la pazienza dello scalpellino che millesima i colpi per ricercare chissà che cosa dentro la difforme gravità della pietra: non ne ha il tempo. Rompe per trovare il tesoro, per giocare con la sorpresa che c’è dentro. Fracassa per inseguire l’intuizione, prima che scappi via nella boscaglia del non conosciuto. Prima che sia troppo tardi. E’ Manlio Di Giusto, il barbaro, che della pietra ha fatto ragione di vita. Parla con denti serrati, come se stesse frantumando sassi con poderosi molari, per assaggiarne la consistenza, valutarne il sapore. La bontà. Se potesse sputerebbe schegge e saliva, ruggirebbe perfino parlando d’amore, sciogliendo preghiere al suo dio nel rintocco chioccio di una bestemmia. Non chiamatelo artista. Si offenderebbe. Artigiano, forse. Nemico delle parole che non mirino al sodo (chissà mai cosa penserebbe di questo mio dire!), considera quello che fa un’esigenza che non deve spiegare a nessuno. Nemmeno a se stesso. Poeta dell’”è così e basta”, sarebbe perfino capace di snobbare l’inaugurazione di una sua mostra. Guai a chi si mette tra lui e il suo obbiettivo: che tu sia un blocco di pietra che gli nasconde la forma o una donna dagli occhi gentili che lo contraddice ha poca importanza. Togli di mezzo il superfluo, a colpi assestati con arte, fino ad essere sgradevole, se lo ritiene necessario. Insiste sul nodo, con rabbia, finchè non raggiunge lo scopo. E ha in sè una certa nobile aspirazione all’essenzialità del vero. Mi piace pensare a quelle mani barbariche e grandi, che Saba direbbe troppo grandi per saper cogliere un fiore, mentre accarezzano piano le curve che hanno creato, sfiorandone lievi e compiaciute l’erotica levigatura. Chissà se si commuove quando da solo chiede alla pietra, ormai domata e sconfitta, un ultimo, sensuale abbandono?
Sedilis, in osteria- San Pietro di Ragogna, ottobre 2008
Angelo Floramo